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"Sulle mie scarpe la polvere di centinaia di strade."

Non di solo pane vive l’uomo (o la cucina peruviana)

La cucina peruviana nasconde un un sacco di novità. C’è inventiva, c’è passione e voglia di mescolare ingredienti apparentemente dissimili fra loro nel tentativo (riuscito) di reinterpretare la cucina andina. Questi tentativi, nel corso degli ultimi venti-trenta anni, hanno dato vita alla
“Cucina Novoandina” che, iniziata negli anni ’80, ha subito una notevole sferzata dal contributo di uno chef che qui é considerato come una specie di divo, il Cracco delle Ande: Gastón Acurio.
Grazie a lui e alla sua innovazione, i piatti tradizionali peruviani si sono affacciati al mondo e si é data vita ad una vera e propria cucina fusion.

Uno dei piatti forti della cucina peruviana di Arequipa é il cuy, il porcellino d’India. Con un sapore a metà strada fra il maialetto e il coniglio, il cuy viene presentato intero sul piatto. Con orecchie e piccoli denti ben visibili. Appena superata la sorpresa iniziale, vale la pena fare un tentativo con questi esserini. Non c’è molto da mangiare a dire il vero, ma il contrasto fra cotenna croccante e carne morbida all’interno é (come sempre) buonissima.

Altro must é la carne di alpaca, che abbiamo assaggiato sia in umido (con crocchette di quinoa) che città su pietre laviche (chactado) Non c’è paragone fra le due versioni. Mentre nella versione in umido si sentiva un forte odore simile a pecora (anche se l’alpaca é un camelide), sulla pietra lavica si sentiva una carne saporita, morbida e succosa che entra di diritto fra le migliori carni che abbia provato.

Gli spiedini di cuore di manzo (anticuchos) sono invece forse la cosa più buona fino a qui mangiata. Teneri e saporiti, serviti con un puré di quinoa con formaggio paria fuso.

Nella tre giorni gourmet di Arequipa, non potevamo non fare un passaggio per il ristorante Chicha di Gastón Acurio. Finalmente faccio uno deroga alla regola d’oro sul cibo in viaggio e ci concedo il primo cebiche del viaggio. Pesce marinato nel limone e in erbe varie (soprattutto coriandolo) con contorno di mais (i chicchi sono enormi qui) e trancio di zucca al forno. Non ci é (ancora) venuto il mal di pancia, ma se anche fosse venuto, con un piatto così ne valeva la pena.

Sorvolo per ora il bere. Non perché non ci abbia dato soddisfazioni (anzi) ma per mancanza di tempo.
Stiamo per partire per Puno, sul Lago Titicaca. 5 ore di auto a 4300 mt, per poi scendere giù fino a dove gli Inca credevano fosse nato il sole.

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Como arequipeños

Siamo in Perù da una settimana. Sette giorni che sono scivolati leggeri, fra un jet lag che non voleva passare, nuovo mondo da conoscere e chilometri da fare.
Ne abbiamo fatti 1095 per il momento.
La sosta obbligata ad Arequipa ci ha permesso di vivere la città senza l’ansia del turista. Come un viaggiatore che ha tempo da perdere e si lascia trascinare dalla gente, dal colore, dagli odori.
Una mattinata al mercato, fra la carne gocciolante sui banchi, i frutti variopinti, le cozze enormi, le cavie peruviane (vive), la camomilla, le foglie di coca, le montagne di pane.
La gente che saluta, che si fa fotografare sorniona, che indica i capelli biondi come una rarità.

La città si prepara alla festa. I due vulcani restano placidi sullo sfondo della cattedrale, appena protetti da una leggera nebbia. Nelle strade vendono sgabelli colorati e l’entusiasmo é contagiante. Arequipa di fondata nel 1540 da Francisco Pizarro (le di cui spoglie sono nella cattedrale di Lima) ed é stata storicamente teatro di numerosi scontri che hanno poi portato all’indipendenza.

Noi continuiamo il nostro vagabondare, visitiamo il museo dove è custodita Juanita, la regina dei ghiacci. Una giovane di circa 12-13 anni che fu trovata intatta dopo oltre 500 anni, nelle nevi perenni del ghiacciaio Amparo a circa 5000 mt di altezza. Gli Inca, per evitare che gli dei della montagna manifestassero la loro rabbia mandando disastri naturali, solevano fare sacrifici umani. Sceglievano la bambina più bella della famiglia reale e la conducevano in cima alla montagna, dove poi veniva sacrificata e sepolta coperta da teli di lana di alpaca (alpaca wool).
Quello che si vede oggi (oltre ad un video sottotitolato in francese datato anni ’70) sono un paio di stanze con foto e suppellettili vari e poi in fondo, al buio, una cella frigorifera (nemmeno no frost, come qualcuno ha fatto notare!) con Juanita, piccola e raggomitolata ora come allora.

Lei è ascesa con orgoglio su quel monte, convinta che quello che le toccava fosse un grande onore. Chi siamo noi per giudicare questo coraggio?

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Arequipa, la città bianca

Siamo ad Arequipa.
Siamo arrivati due giorni fa.
Io sono arrivata con la febbre a 38. L’idea era quella di fare una notte al Canyon del Colca a vedere i condor andini, ma ci sconsigliano di salire a 4900 mt con tosse e raffreddore. Quindi non resta che mettersi buoni, trovare un posto dove dormire e passare questi tre giorni ad Arequipa, godendoci quello che di buono questa città ci offre. Che é molto, a dire il vero.

La chiamano la città bianca. Il nome viene da una particolare roccia bianca, il sillar, con cui sono costruiti la maggior parte degli edifici.
La Plaza des Armas é enorme e verdissima. Quando arriviamo noi é stranamente senza taxi e piena di gente. Sta per iniziare una parata: si celebrano i 474 anni di indipendenza di Arequipa. Anche in hotel ci dicono che siamo i più fortunati ad essere qui proprio in questi giorni.
La cattedrale, costruita e distrutta varie volte a causa di diversi terremoti, occupa un lato intero della piazza, unico caso in tutto il Sud America. In più espone la bandiera del vaticano. Solo 100 chiese al mondo possono farlo, ma al momento non siamo stati capaci di scoprire quali.
All’interno il pulpito fatto in Francia, le statue degli apostoli in marmo italiano e un organo donato dal Belgio, che ha condannato i fedeli a più di un secolo di musica stonata visto che si era rotto durante il trasporto in mare. Per una volta i terremoti non c’entrano, anche se devono essere davvero molto frequenti visto che in ogni luogo pubblico si trovano delle S che indicano i luoghi sicuri in caso di sisma.

Noi beviamo un birrino (caldo) sulla balconata della piazza, guardando da una posizione molto privilegiata la parata, con sbandieratori, majorettes, donne non più giovani vestite in abiti da ballo. L’aria di festa si respira ovunque.

L’altra grande attrazione di Arequipa é il Monastero di Santa Catalina. Qui vivevano monache di clausura e solo qualcosa come 400 anni fa é stato aperto al pubblico. É come una città nella città. Pareti color mattone ed indaco si alternano in un labirinto di cellette, stanze comuni, giardini, chiostri. Salendo sulla terrazza del monastero si vede El Misti, il vulcano di 5900 mt che domina tutta la città e ne é il simbolo.
Siamo a 2300 mt slm, l’aria é calda, densa di polvere, cibo e odori di mondo.
Ci confondiamo ancora un po’ con la gente nelle strade, che tempo ne abbiamo.

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Il “voletto”

Dopo un paio di giorni offline, riesco finalmente a riprendere un po’ il racconto.
Il voletto é quello sulle Linee di Nazca.
Che abbiamo fatto con un Cessna 207 Turbo.
Il volo durava 35 minuti, che sono pochi.
Le virate per vedere le linee erano di 45 gradi, che sono molti. Ma molti.
Belle le linee di Nazca, belle davvero.
Pensare che coprono un’area di 500 km quadrati, che sono ancora uno dei misteri irrisolti del mondo e che tu vedi queste figure dall’alto e le vedi piccole, ma sono lunghe anche 200, 300 metri ciascuna.
Poi in realtà io non le ho viste proprio tutte tutte, perché il volo è stato abbastanza impegnativo.
Di più per la spagnola dietro di noi che ha vomitato nell’apposito sacchettino.
Quindi quando l’aereo si piegava dalla mia parte, mi affrettavo a dire che: sí le ho viste, sí sono bellissime.
Lasciamo Nazca a pomeriggio inoltrato, per fare i 200 km che ci portano a Puerto Inka, sulla strada verso Arequipa.
Qui il deserto arriva a picco sul mare, la strada costeggia le scogliere per quasi 500 km ininterrotti.
Vista la posizione, é facile attraversare zone di nebbia e nuvole basse, come vapore che sale dal mare.
É la neblina, che a tratti rende il percorso nel deserto quasi surreale.

Una notte trascorsa in una stanza bellissima, a dieci passi dal mare, col rumore delle onde che ci ha fatto compagnia tutta la notte.
Da qui iniziamo a salire sulle Ande.

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La strada verso sud

Partiamo di buon’ora. Abbastanza facile visto che alla sera alle otto contiamo i minuti per restare svegli almeno fino alle nove e alla mattina alle cinque io inizio già a fare cose.

Facciamo una colazione a letto di latte e cioccolato e biscotti (suona romantico e lo era, ma solo perché non c’erano altri posti in paese dove fare colazione e il market offriva solo brik di latte con cannuccia e biscotti) e partiamo in motoscafo per le Islas Ballestas.
Circa mezz’oretta di mare dopo (ottima idea il latte nel brik), arriviamo a queste piccole isolette completamente ricoperte di guano dove vivono pellicani, gabbiani di vario genere, leoni marini e avvoltoi vari. Come sempre quando c’è di mezzo una barca, il mio entusiasmo é frenato dal fatto che ho dovuto mettere particolare impegno nel cercare di in qualche modo di combattere il mal di mare e quindi, non me ne voglia la fauna avicola delle isole, però torno indietro infreddolita e non particolarmente impressionata, ma comunque con mille mila foto di leoni marini che invece sono belli.

La riserva naturale di Paracas invece é un’altra storia. Chilometri di deserto che costeggiano il mare, dune altissime e scogliere a picco sull’oceano lasciano spazio a qualche spiaggetta dove bambini coraggiosi fanno il bagno nell’acqua gelata sotto lo sguardo vigile di un gruppo di pellicani.

Mangiamo sulla spiaggia, in un luogo che sembra davvero sospeso nel tempo.
Se non fosse che, al tavolo di fianco, sentiamo una tizia vaneggiare dicendo: “beh, la punta al forno non é tipicissima di Parma. No, no… Da noi diamo solo un po’ di tortelli e del salume, hai già mangiato abbastanza.” Silenzio in aula. Forse lei ha mangiato abbastanza, che sarà 30 kg vestita… E conclude: “la punta é un arrosto di una bestia, poi col ripieno… Boh, sarà di manzo.” A questo punto non ho più ricordi. Credo di essere stata allontanata prima di creare qualche incidente con la beniamina di Perù Responsabile.

Rientriamo a Paracas e guidiamo i 100 km fino a Huacachina, un’oasi nel deserto. Altissime dune intorno ad un laghetto da dove si può ammirare il tramonto e sentire l’aria che, dopo il primo giorno di sole, si va via via rinfrescando.

Le stelle non le abbiamo viste.
Siamo andati a letto anche stasera troppo presto. Il desiderio però l’avevano già espresso al mattino, passando sotto un arco naturale alle isole Ballestas.

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Nostalgica Lima

Fresco. 17 gradi, forse anche meno.
Una nebbiolina bagnata avvolge ogni cosa. É la garúa, come la chiamano i limeños.
La garúa copre tutto in una cappa uniforme di malinconia, é come se fosse polvere.
In molti si domandano come mai Francisco Pizarro fondó proprio qui la città, ma per chi viene dalla pianura padana non é poi tutta ‘sta tragedia vedere un po’ di nebbia.

Pochi passi e siamo sulle scogliere di Miraflores. Davanti a noi l’oceano Pacifico, qualche surfista che aspetta le onde e la città che lentamente si sta svegliando. Sono solo le otto. Noi abbiamo già fatto colazione e un tassista gentile ci porta verso il centro.
Abbiamo camminato fra gli edifici coloniali giallo zafferano del centro, ci siamo lasciati perdere nel mercato centrale, dove l’odore del pesce e della carne si mescolava a quello delle persone, ai sorrisi, agli “Hola”.
Abbiamo girato per le strade del centro cercando di orientarci fra vicoli e piazze, fino a Plaza San Martin. Il profumo della cipolla fritta, i churros delle donne colorate ai lati delle strade, piazza Bolívar con le bandiere.

Nella cattedrale ci sono i resti di Francisco Pizarro, uno scheletro con indicati i vari punti che lo riconoscono in modo definitivo come tale (per un sacco di tempo sono state conservate ossa che poi si sono rivelate di un poveretto che non c’entrava niente). Per la cronaca, Pizarro é morto di Lupus. Con buona pace dei fan di Doctor House.

Dopo due ore guidando nel traffico di Lima (un’esperienza), imbocchiamo la Carretera Panamericana Sur. Oceano e deserto ci accompagnano per 200 km fino qui. A Paracas.

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Bienvenidos al Perú

Il viaggio é lungo. Non ci sono né se né ma. In via generale, il mio planning personale per affrontare voli oltre le 10 ore prevede:
– aspettare decollo (45 minuti);
– poi ti daranno da mangiare (1 ora e mezza);
– poi si guarda un film (2 ore).
Poi per le successive 5-6-7 ore, io sbuffo.
Ieri AirFrance ci ha dato, nel pranzo, mezzo litro di vino rosso e una bottiglietta di Porto. Che benché molto criticata (co gh’entra il porto con la Francia? cit.), in realtà ha reso possibile un’oretta di sonno e qualche filastrocca a voce un po’ troppo alta.
Siamo arrivati a Lima ad un orario x che in Italia corrispondeva a circa le due di mattino.
Abbiamo aspettato gli zaini quella che a me é sembrata un’eternità e ci siamo buttati fuori dall’aeroporto.
Aria umida e nebbiosa, ma fresca.
Gran traffico di gente, in un venerdì sera dove sembrava che tutti avessero voglia solo di divertirsi.
Un’ora di taxi dopo, durante la quale siamo stati allietati da tutto il meglio della dance europea anni 90 (con grande gioia dell’ing), siamo arrivati al nostro piccolo hotel.

Siamo nel quartiere di Miraflores. Piccole casette colorate, aria fresca e profumi nuovi.
Andiamo a fare un giro nel centro storico, poi prendiamo una macchina che in circa tre ore di porterà a Paracas.
Adesso siamo in viaggio davvero.

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LIN – CDG – LIM

Il mio aeroporto preferito é Linate. Anche Bologna, ma Linate di più. Parcheggi all’executive, in due minuti sei alle partenze e, in un moto di campanilismo, quando l’aereo si stacca dal finger e vedi la scritta “Emporio Armani” hai un secondo di orgoglio. Solo un secondo. Solo io, forse.

Stamattina sveglia tonica alle 5.50. Questa volta il debito di sonno c’é, che ieri sera abbiamo rincorso cose fino all’una. Colazione di latte e i 120 km per Milano.
Mentre scrivo siamo sul volo che ci sta portando a Parigi. Oltre l’ala, le Alpi.

Piccola sosta a CDG e poi 12 ore per arrivare a Lima.

Un birrino prima di salire in aereo e siamo pronti.
Una rotta oceanica lunga, prima la Spagna e il Portogallo, poi giù giù. Fino al Peru.

Vettore: AirFrance
Aeromobile: Boeing 777-300
Tempo di volo previsto: 12 ore circa
Ora di arrivo prevista 19.05
Temperatura a Lima: 15 C, coperto, umidità 98%
A Parigi invece piove. Come quando sono partita per la Martinica, che addirittura nevicava.
La primavera, come sempre, basta averla nel cuore.

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Not all those who wander are lost.

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«Il tutto sta nel dosare sentimento e stile, il tutto sta nel mettere insieme la rabbia estemporanea del punk e la più rigorosa impostazione jazzistica, per cominciare la più grande rivolta di tutti i tempi»

Tu metti una linguista. Una che scrive ancora con i pennarelli, che annota citazioni e sottolinea libri. Poi metti un ingegnere,  che sincronizza calendari, differenzia la spazzatura e crea file Excel per le voci di spesa.

Poi immaginati una strada di montagna, gli occhi ancora pieni di sole e un’idea.
Un viaggio in auto.
Tre settimane sulla strada, una strada simile a quella che ci ha ispirato la prima volta.
5000 km fra coste oceaniche e picchi andini, con solo l’idea di andare.
Uno zaino, una canzone e la voglia di raccontare.

Quindi meno di quarantotto ore alla partenza. Valigia ancora da fare, ovviamente. Un gatto da riconsegnare e poi si può iniziare a sentire profumo di vacanze.

Chi ne avrà voglia, può vivere un po’ di questa esperienza con me. Con noi.