Il treno che da Cusco va ad Aguas Calientes, avamposto di Machu Picchu, é di gran lusso. Una sorta di business class che fra musichette andine annacquate, pranzi, snack e piccolo negozietto di souvenir, copre in tre ore e mezza i 92 km che separano Cusco dalla cittadella degli Inca.
La locomotiva a Diesel arranca in mezzo ad una valle strettissima resa viva da pochi, sparuti abitanti.
Arriviamo in paese. É una specie di paese fantasma, un luogo che sai non esisterebbe se non fosse per la sua vicinanza al sito archeologico più famoso del Sud America e forse anche del mondo.
Il treno arriva in mezzo alle case e ai ristoranti sollevando la polvere e svegliando qualche cane nudo sonnolento che dormiva vicino alle rotaie.
Passiamo il pomeriggio a gironzolare fra le bancarelle e i negozi, che vendono tutti le stesse cose. L’insistenza dei ristoratori lungo le strade fa passare la voglia di entrare e sedersi.
La notte passa veloce, la sveglia suona alle 5.30. Oggi finalmente andiamo a Machu Picchu. Alle 6.30 siamo davanti alla stazione dei pullman, che in venti minuti si arrampicano sulla montagna. Aspettiamo più di un’ora prima di poter salire e arriviamo in un grande spiazzo che é l’ingresso del sito.
Un paio di bar, i bagni pubblici e chi controlla gli ingressi. Passaporto alla mano, entriamo e facciamo i pochi metri che, girando intorno al fianco della montagna, ci fanno vedere la cittadella.
La maestosa città di Machu Picchu non é mai stata scoperta dagli spagnoli ed é stata dimenticata fino praticamente all’inizio del XX secolo.
Come sempre accade, nel 1911, lo storico americano Hiram Bingham stava cercando tutt’altro e inciampó sulle rovine di Machu Picchu, allora completamente coperte dalla vegetazione. Anche per questa ragione non fu possibile allora definire con chiarezza la mappa del luogo; anche oggi, comunque, le varie interpretazioni sulle diverse costruzioni del sito sono e restano interpretazioni, ipotesi: non v’é certezza alcuna, se non sugli enormi terrazzamenti, dove venivano principalmente coltivati mais e coca.
Arrivare a Machu Picchu ha di per sé una componente di fascino che é innegabile. Quando arrivi alla prima salita e in mezzo alla foschia vedi la cittadella, davvero ti senti in cima al mondo. Nel punto più alto, guardi giù e vedi la storia dell’uomo.
Poi passa, perché orde di americane in canotta urlano ovunque per fare foto, tu hai solo un attimo per fare la tua e tornare ai tuoi pensieri.
Facciamo un percorso nel bosco che ci porta ad un ponte levatoio ora chiuso (qualcuno é caduto giù). Un sentiero pianeggiante che costeggia la montagna e tenuto da un muro a secco che non si capisce come possa essere stato costruito oltre 600 anni fa.
Tutta Machu Picchu fa questo effetto. La zona impervia su cui é costruita rende ancora più incredibile il lavoro fatto. Pietre precise al millimetro trascinate fin quassù e incastrate una sull’altra.
Tutto è perfettamente conservato, solo i tetti (che erano in paglia) mancano. Per il resto tutto é abbastanza riconoscibile.
Al centro della cittadella una piazza ricoperta d’erba dove qualche lama bruca pigramente.
Rientriamo nel tardo pomeriggio. Le quasi quattro ore del ritorno sembrano non finire mai.
Il tempo di arrivare in ostello, fare una doccia, mangiare un biscotto e siamo a letto.
Oggi si parte per la foresta amazzonica.

I poveri lama che sono stati messi lì dal Ministero del Turismo…