Si torna

Siamo ad Amsterdam.
Abbiamo lasciato Lima ieri alle 13.50, in meno di quattro ore eravamo a Panama.
Un volo tranquillo, che é entrato nel golfo quasi al tramonto e ci ha fatto vedere il canale dal cielo.
Un paio d’ore di attesa e il volo fino ad Amsterdam. Dieci ore che sono passate abbastanza leggere, su una rotta molto a nord che ci ha portato ad Amsterdam a mezzogiorno.
Abbiamo bighellonato per la città tutto il pomeriggio, un pomeriggio di sole e aria fresca.

Stiamo tornando a casa.

Torniamo a casa con un piccolo pezzo di mondo in più, fatto di venti giorni di viaggio, di chilometri, di vette.
Venti giorni di freddo e sole accecante, di febbre e raffreddore, di denti lavati con acqua minerale, di Pisco sour, di nuovo cibo, di nuovi sapori.
Venti giorni di sveglia alle sei (“sono vispa”), di calma, di senza fretta.
Venti giorni con la guida in mano, letta ad alta voce sulla strada.

Venti giorni senza latte, di mate de coca, di pane dolce.

Venti giorni dove, lontano da casa, sempre mi sono sentita a casa.

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Sul Rio

Sono le nove quando prendiamo il mototaxi e ci facciamo portare al porto di Nanay.
Nella strada per arrivare al molo si affollano venditori di tutto quello che viene dal fiume e dalla jungla: pesci, vermi giganti fatti alla griglia (suri), lagarto (a metà strada fra il coccodrillo e l’alligatore), aguaje (un frutto arancione che si dice faccia venire le tette più grandi), yucca (tipo una patata, ma più legnosa), banane varie. Noi camminiamo in mezzo al pesce e arriviamo alla piccola barca che ci aspetta.
Una lancia di circa otto metri che rispetto alle altre barche sul fiume sembrava di grandissimo lusso.
Arriviamo al quartiere di Belen, questa volta dal fiume. Le case, per la maggior parte palafitte, in questo periodo dell’anno mostrano la loro struttura per intero, visto che il fiume è molto basso.
Il fiume é il centro della vita, tutto accade lungo il fiume.
Le barche che partono per la Colombia e il Brasile (circa due giorni di navigazione, posto amaca a circa 15 soles), l’industria del legno, i bambini che giocano, le donne che fanno il bucato.
Ogni tanto qualche rumorosa barca a motore disturba la calma placida di questo luogo.
Noi continuiamo la navigazione placidamente. Senza fretta.
L’acqua scura del Rio delle Amazzoni ogni tanto ci schizza, mentre il sole é ben alto sull’equatore.

Arriviamo su una costa dove c’è un centro di recupero animali feriti. Una specie di ospedale per animali in difficoltà. Peccato che il ragazzo che ci ha accolto non avesse alcuna voglia di spiegarci gli animali, tutto preso com’era dal suo terribile raffreddore.
Fatto sta che abbiamo visto da vicino (e toccato) un’anaconda ferita alla coda e al collo, due tucani, tre boa constrictor (non toccati, quelli), scimmiette miste e, finalmente, un bradipo.
Il bradipo é fra i miei animali preferiti (insieme al suricato). In spagnolo si chiama Oso Perezoso, orso pigro. Noi gli abbiamo dato un po’ noia, si é svegliato e ci ha guardato sonnolento. Ma solo per un attimo.

Nel rientrare, ci siamo fermati su una spiaggia. Le spiagge si formano solo per tre mesi all’anno. Il terreno sembra un po’ metallico, la sabbia bollente. Nei tre mesi in cui qui c’è asciutto si fanno dei fuochi per bruciare gli scarti lasciati dal fiume e preparare il terreno per la semina. Si pianta riso e qualche filare (per la verità un po’ stentato) di fagioli.

Pranziamo con mezzo mango, due banane e una fetta di ananas, un pezzo di pane e un paio di tamales.
Il cielo si annuvola, noi rientriamo al porto mentre si prepara la pioggia.
Aspettiamo il tramonto in un bar sul lungofiume.
Quando andiamo in aeroporto é già buio.
Ci aspetta l’ultima notte a Lima, prima di rientrare a casa.

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Iquitos, Perù. O no?

La prima idea era stata Manu. O Puerto Maldonado. Poi, quando ho letto che bisognava avere molti più giorni per un giro nel bacino amazzonico da quella parte, ho scelto Iquitos.
Mesi a cercare di convincere chi mi accompagna che Iquitos “is the place to be” e a convincere tutti che tre giorni sul Rio delle Amazzoni sarebbe stata un’esperienza. Avevo ragione.
Siamo ad Iquitos da un paio di giorni, non sembra di essere in Perù.
Questa città fu fondata verso la metà del 1700 come missione gesuita, che avrebbe dovuto contribuire alla conversione al cristianesimo dei popoli amazzonici.
Alla fine del 1800, la popolazione si é praticamente duplicata, grazie al boom del mercato della gomma.
Poi un giorno, un personaggio illuminato, portó fuori dall’Amazzonia i semi dell’albero della gomma e li piantó in filari da qualche parte in Malesia: molto più facile che raccoglierla girovagando alla cieca nella foresta. Da lí a poco la potenza di Iquitos inizió a scemare.
Negli anni successivi, la città si mantiene con l’agricoltura e vendendo animali esotici agli zoo.
Negli anni 60 c’è un nuovo boom: il petrolio, che consente ad Iquitos di essere la città che é oggi.

Iquitos é diversa da tutto il resto del mondo. Iquitos é calda, puzzolente, ma affascinante. Le grandi case coloniali ricoperte di ceramiche colorate si intervallano a catapecchie che sono poco più che capanne. Qualche SUV lungo le strade fa da controparte all’infinito numero di mototaxi che girano come sciami impazziti per le strade del centro.

Ci lasciamo portare al mercato di Belen. Ho visto molti mercati nella mia vita, sono una delle cose che mi piacciono di più.
Vedere cosa la gente vende, cosa compra, come. L’odore della carne al caldo, le spezie, gli umani.
Ci siamo persi nel mercato, vagando senza direzione passando fra teste di bue, tartarughe squartate, cortecce, ristoranti che vendono il caldo de gallina, donne che con un movimento ritmico sembrano montare a neve la schiuma della birra per poi venderla in bicchieri, da mangiare col cucchiaino.

La giornata scivola leggera.
Nel primo pomeriggio prendiamo una barchetta che ci porta a mangiare su un ristorante che galleggia sul fiume. Mangiamo la doncella, uno dei pesci del Rio delle Amazzoni, avvolto in una foglia di palma e coperta di cipolla rossa, pomodoro e cilantro. Dopo anni sto facendo l’abitudine a questa erba che tanto odiavo.

Rientriamo che é pomeriggio inoltrato, un pappagallino fischietta nel giardino vicino alla nostra camera. Noi aspettiamo che scenda la sera, per tornare alla piazza e vedere di nuovo la gente che guarda gli artisti di strada e ride e si diverte, in un angolo di mondo che non sembra di questo mondo.

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Verso Iquitos

Amo gli aeroporti. Mi correggo: io adoro gli aeroporti. Soprattutto quelli fuori dall’Italia.
Gli aeroporti é come se fossero un mondo a sé, una dimensione sospesa nel tempo, una specie di terra di mezzo fra andare e tornare.
I miei due film preferiti sull’argomento sono The Terminal e Tra le nuvole. Qui l’aeroporto é marginale, ma vale la pena perdere due minuti e venti e guardare questa grande verità su come affrontare il check-in:

Ieri avevamo il volo per Iquitos. Da Cusco un’oretta scarsa di volo per tornare a Lima e poi un’altra ora e mezza per arrivare nella Foresta Amazzonica.
Ci hanno cancellato il primo volo, causa neblina che impediva l’atterraggio nell’aeroporto di Cusco. Quindi invece che alle 10 siamo partiti alle 12, persa la coincidenza e aspettato quattro ore a Lima prima di prendere il volo delle 17 per Iquitos.
A me piacciono queste cose. L’imprevisto, lo sbattimento, l’immaginarsi mille scenari possibili di soluzione.
E poi i negozi che vendono cose inutili negli aeroporti, cianfrusaglie per regali dell’ultimo minuto ma anche un mini-mondo di tutto quello che potrebbe servirti in viaggio (e probabilmente no).
I nostri voli sono andati lisci come l’olio, siamo atterrati ad Iquitos in perfetto orario.
Abbiamo lasciato i 3200 mt di Cusco per arrivare qui, 130 mt slm.
L’aria é carica di umidità quando scendiamo dall’aereo.
Il caldo é bagnato e opprimente, ma finalmente l’aria é carica di ossigeno.

Iquitos é la più grande città del mondo non raggiungibile da strade. Si arriva solo via aereo o via fluviale. Il fiume é il Rio delle Amazzoni.

Prendiamo un mototaxi all’uscita dell’aeroporto che in meno di mezz’ora ci porta alla nostra locanda.
Quattro passi nel centro e una birra sul lungo fiume hanno chiuso la giornata.

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Machu Picchu

Il treno che da Cusco va ad Aguas Calientes, avamposto di Machu Picchu, é di gran lusso. Una sorta di business class che fra musichette andine annacquate, pranzi, snack e piccolo negozietto di souvenir, copre in tre ore e mezza i 92 km che separano Cusco dalla cittadella degli Inca.
La locomotiva a Diesel arranca in mezzo ad una valle strettissima resa viva da pochi, sparuti abitanti.

Arriviamo in paese. É una specie di paese fantasma, un luogo che sai non esisterebbe se non fosse per la sua vicinanza al sito archeologico più famoso del Sud America e forse anche del mondo.
Il treno arriva in mezzo alle case e ai ristoranti sollevando la polvere e svegliando qualche cane nudo sonnolento che dormiva vicino alle rotaie.
Passiamo il pomeriggio a gironzolare fra le bancarelle e i negozi, che vendono tutti le stesse cose. L’insistenza dei ristoratori lungo le strade fa passare la voglia di entrare e sedersi.

La notte passa veloce, la sveglia suona alle 5.30. Oggi finalmente andiamo a Machu Picchu. Alle 6.30 siamo davanti alla stazione dei pullman, che in venti minuti si arrampicano sulla montagna. Aspettiamo più di un’ora prima di poter salire e arriviamo in un grande spiazzo che é l’ingresso del sito.
Un paio di bar, i bagni pubblici e chi controlla gli ingressi. Passaporto alla mano, entriamo e facciamo i pochi metri che, girando intorno al fianco della montagna, ci fanno vedere la cittadella.

La maestosa città di Machu Picchu non é mai stata scoperta dagli spagnoli ed é stata dimenticata fino praticamente all’inizio del XX secolo.
Come sempre accade, nel 1911, lo storico americano Hiram Bingham stava cercando tutt’altro e inciampó sulle rovine di Machu Picchu, allora completamente coperte dalla vegetazione. Anche per questa ragione non fu possibile allora definire con chiarezza la mappa del luogo; anche oggi, comunque, le varie interpretazioni sulle diverse costruzioni del sito sono e restano interpretazioni, ipotesi: non v’é certezza alcuna, se non sugli enormi terrazzamenti, dove venivano principalmente coltivati mais e coca.

Arrivare a Machu Picchu ha di per sé una componente di fascino che é innegabile. Quando arrivi alla prima salita e in mezzo alla foschia vedi la cittadella, davvero ti senti in cima al mondo. Nel punto più alto, guardi giù e vedi la storia dell’uomo.
Poi passa, perché orde di americane in canotta urlano ovunque per fare foto, tu hai solo un attimo per fare la tua e tornare ai tuoi pensieri.

Facciamo un percorso nel bosco che ci porta ad un ponte levatoio ora chiuso (qualcuno é caduto giù). Un sentiero pianeggiante che costeggia la montagna e tenuto da un muro a secco che non si capisce come possa essere stato costruito oltre 600 anni fa.

Tutta Machu Picchu fa questo effetto. La zona impervia su cui é costruita rende ancora più incredibile il lavoro fatto. Pietre precise al millimetro trascinate fin quassù e incastrate una sull’altra.
Tutto è perfettamente conservato, solo i tetti (che erano in paglia) mancano. Per il resto tutto é abbastanza riconoscibile.

Al centro della cittadella una piazza ricoperta d’erba dove qualche lama bruca pigramente.

Rientriamo nel tardo pomeriggio. Le quasi quattro ore del ritorno sembrano non finire mai.
Il tempo di arrivare in ostello, fare una doccia, mangiare un biscotto e siamo a letto.

Oggi si parte per la foresta amazzonica.

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L’ombelico del mondo

Cuzco é l’ombelico del mondo. É qui che la civiltà inca ha fondato le proprie origini. Su queste montagne, la più antica civiltà del Sud America ha scritto la sua storia fino a quando – già logorati da lotte interne legate a beghe di successione – un manipolo di conquistadores sono arrivati e, in nome della corona spagnola, hanno distrutto tutto quello che hanno trovato ancora di vivo e vitale sul loro cammino (buona parte del lavoro era già stato fatto dalle malattie, importate anch’esse dal Vecchio Mondo e che correvano ben più veloce dei soldati).
Nel giro di poco più di cinquant’anni, la civiltà inca veniva cancellata dalla faccia della terra e, sulle rovine degli antichi templi, furono costruite sontuose cattedrali.
La Plaza de Armas di Cusco ne é la metafora esistente. Una piazza enorme, bellissima, contornata da un porticato coloniale e che ospita non una, ma due chiese. Da una parte la cattedrale e, alla sua sinistra, la Chiesa dei Gesuiti.
La storia delle due chiese é affascinante. Per qualche ragione, la loro costruzione é iniziata quasi simultaneamente nella seconda metà del 1500. Diciamo ad una decina di anni di distanza l’una dall’altra, che comunque é molto poco se si pensa che entrambe, per essere finite, hanno impiegato più di un secolo.
In una sorta di assurda rivalità, la Chiesa dei Gesuiti voleva essere più bella e più ricca della Cattedrale. Venne costruito un enorme altare in oro e l’interno venne decorato con ogni attenzione.
Questo non piacque a chi invece stava stava progettando la Cattedrale, che pensó quindi di scrivere al Papa (allora Paolo III) e far dirimere a lui la questione. Poiché le comunicazioni erano piuttosto lente, passó parecchio tempo prima che a Cusco arrivasse la notizia che il Papa si pronunciava a favore della Cattedrale.
Il risultato é una chiesa enorme, collegata ad altre due chiese come se fossero una cosa sola, con due altari (di cui uno ligneo bellissimo), un enorme spazio per il coro, anche questo in legno, con diverse cappelle tutte decorate con ori e argento.
Sul fondo della chiesa un dipinto raffigurante l’Ultima Cena. Al centro del banchetto, quasi a rubare la scena ai presenti, fa bella mostra di sé un “cuy”, un porcellino d’India.

Il resto del centro di Cuzco é piacevole da passeggiare, un piccolo mercato offre cibi tradizionali (fra cui la Chicha, la famosa birra artigianale di mais fermentato), ovunque negozi di souvenir e turisti.

La cosa bella dell’essere a 3200 mt é che tutti vanno ad un ritmo che non é quello della vita comune. Non c’è frenesia, solo la voglia di camminare leggeri in un paese che ci ha accolto come fosse casa.

Si sta facendo buio quando restituiamo l’auto. Dopo 11 giorni e 2150 km, lasciamo la nostra Nissan Almera. Non senza un attimo di malinconia.

Solo un attimo. Domani ci aspetta il treno per Aguas Calientes. Fra poco saremo a Machu Picchu.

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Pensieri sparsi

Il giorno di ieri é stato un giorno di auto. Quasi 600 km fra Copacabana e Cuzco. Di nuovo un passo a 4500 mt e poi giù, scendendo fino a 3200 mt, dove finalmente ci sono gli alberi e la vegetazione si fa più verde.
Vista la scarsità di avvenimenti lungo le dieci ore di strada, abbiamo annotato pensieri sul Perù in ordine sparso:

– le case sono quasi tutte non finite perché in questo modo non si pagano le tasse;

– le frecce vengono usate in modo assolutamente contrario a quanto si fa in Europa; quindi se un bus mette la freccia a sinistra, vuol dire che accosta a destra.

– i camion trasportano una quantità incredibile di carburante di ogni tipo. Ogni camion che si rispetti ha almeno una dicitura “peligro combustible”.

– i chicchi di mais sono circa il doppio rispetto ai nostri. Aperitivo top sono dei chicchi semi cotti e passati nel sale. I pop corn sono grandi quasi come un’albicocca.

– il durazno é senz’altro il nostro frutto primo preferito anche se ancora nella sua forma integra non l’abbiamo visto.

– il latte fresco é praticamente introvabile, mentre la latteria Gloria ha un vero impero. A noi piace molto il brik di latte e cioccolato.

– il pane, in ogni punto del Perù, é buonissimo.

– la benzina è categoricamente da 84 ottani, anche se il contratto di noleggio la vorrebbe da ben 95.

– i cani sono sostanzialmente i padroni delle strade.

– i cani, sopra i 3000 mt, sono tutti indistintamente pelosi.

– i cani nudi stanno solo dove ci sono le rovine inca perché il ministero della cultura ha pensato facessero folklore.

– i dossi sono moltissimi e di solito mai situati dove dovrebbero.

– qualunque macchina tu abbia, a 4500 mt andrà come un motorino. Questo vale anche per i motociclisti cileni col GS che facevano i fighi a Puno.

– non importa quanto lontano tu sia da casa, gli italiani sono ovunque.

– come sempre, ho visto qualcuno con la maglia del Barcellona.

– la bandiera multicolore che si vede ovunque non é quella dei diritti gay, ma la bandiera andina.

– Gualtiero, milanese di un certo spessore, si chiedeva se potesse andare alla Scala indossando una fascetta comprata alla Isola Taquile, invece di quella di seta dello smoking (son problemi anche questi).

– il mate di coca fa bene ma sa di erba. Noi abbiamo esportato in Germania il mate-to-go e abbiamo sempre con noi un po’ di bevanda.

– dopo dieci ore di macchina, stai sicuro che sarai impolverato da capo a piedi nonostante il ricircolo azionato sapientemente dall’autista.

– il riscaldamento in camera é del tutto sopravvalutato.

– per chi volesse, abbiamo un cd di mp3 di musica arequipeña imperdibile.

– la campagna elettorale é fatta con disegni colorati sui muri.

– il wifi é ovunque, ma il vero problema (oltre alla mancanza di corrente) é la assoluta non distinzione fra maiuscole e minuscole. Questo rende la ricerca della password un po’ come una partita di master mind.

– se vuoi chiudere una strada, puoi comodamente costruirci un muretto di mattoni vivi nel mezzo.

– potete non crederlo, ma il piatto più venduto ovunque (secondo solo al caldo di gallina) é la pizza. Cotta nel forno di adobe.

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24 ore (scarse) in Bolivia

Il passo fra Puno e Copacabana é breve. 140 km di una strada che costeggia il lago e in meno di due ore siamo al confine con la Bolivia.
Un confine terrestre, che agli europei della nostra generazione suona un po’ strano. Dobbiamo fare presto: alle 13.30 parte l’ultima barca che porta alla Isla del Sol. Siamo tranquilli, arriviamo al confine alle 11.30 e poi, una volta passati di lá, solo otto chilometri fra noi e l’isola dove gli Inca credevano fosse nato il sole.
Quello che nella nostra pianificazione non é stato considerato, però, é che le formalità doganali sono un infinito andirivieni fra un ufficio e l’altro (chi ti timbra il passaporto, chi controlla i documenti dell’auto, chi controlla chi ha controllato) e che, passati finalmente sul lato boliviano, é ancora mezzogiorno, ma in Bolivia é l’una. E la dogana chiude fino alle due. E la isla del sol possiamo anche dimenticarcela.
Mangiamo un gelato sull’asfalto, insieme a qualche cane randagio che cerca qualcosa da rubare.
Finalmente è il nostro turno, dopo poco (praticamente due ore dopo dall’arrivo in dogana) siamo pronti e arriviamo a Copacabana.
Siamo in un ostello sopra la collina. Dalle amache del nostro giardino si vede il lago, puntellato di barche.
Usciamo per una passeggiata nel centro, mille viuzze disseminate di negozietti di alimentari gestiti da donne grasse e sorridenti.
Compriamo delle focacce bollenti, appena uscite dal forno, destando l’interesse di tutti i cani della via, che si avvicinano golosi.
Arriviamo davanti alla cattedrale della Vergine di Copacabana e assistiamo ad un evento mai visto prima: una famiglia aspetta il prete per far benedire la propria auto.
Il prete arriva, inizia la cerimonia di benedizione. Tutt’intorno si crea un capannello di curiosi. L’acqua viene aspersa su ogni lato della macchina, si apre anche il cofano e si benedice il motore. Noi assistiamo increduli, sorridenti, io anche un po’ commossa.
Quando entriamo nella cattedrale siamo ancora sorridenti, col cuore dolce.
Arriviamo ai piedi della Virgen de Copacabana, una madonna bellissima, con una veste bianca e argento e i piedi coperti di fiori.
Una giovane donna le lancia delle monete.
Quando usciamo dalla cattedrale sta calando la sera.
Camminiamo fino al porto, alcuni moli in legno sulla spiaggia.
Tramonta il sole sul Lago Titikaka, proprio lá in fondo, dove si vede il contorno della Isla del Sol.

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Navigando il Lago Titikaka

Siamo sul Lago Titikaka. Il lago navigabile più alto del mondo, a 3812 mt.
Sembra il mare. É azzurro, cristallino ed enorme (oltre 8300 kmq).
Il nome Titikaka significa puma (titi) grigio (kaka). Il lago é per il 65% peruviano, mentre per il restante 35% é boliviano. I peruviani dicono che a loro appartiene la parte che si chiama titi, ai boliviani la parte caca.

Nel 1972, per la prima volta, i peruviani hanno potuto vedere una fotografia satellitare del lago e si sono accorti che il lago ha davvero la forma di un puma. Sul come i loro antenati potessero saperlo, rimane uno dei tanti enigmi irrisolti del lago.

Noi abbiamo preso una barchetta che ci ha portato a vedere prima la Isola Taquile e poi le Isole Uros.
Taquile é un’isola di 7 kmq dove si vive secondo tre semplici regole: chi non lavora non mangia, non si ruba, non si mente.

Gli uomini indossano un cappello rosso se sono sposati, rosso e bianco se sono ancora single.
Fino a 10 anni fa non era concesso sposare persone fuori dall’isola, ma poi questa regola é stata tolta per problemi di consanguineità.
Sia uomini che donne hanno in tasca uno specchietto. Quando un uomo vede una donna che gli piace, non fa altro che abbagliarla con lo specchio. Se lei risponde é praticamente fatta. Le donne, nel valutare se un uomo merita di essere sposato (!), mettono dell’acqua nel loro cappello. Se l’acqua cola significa che il giovane é pigro e non ha fatto bene il suo lavoro (potenziale cattivo marito), mentre se l’acqua rimane all’interno del cappello vuol dire che si é dato da fare e potrà quindi mantenere la famiglia. Non fa una piega. Un po’ come le femmine di pinguino, che scelgono il maschio più grasso perché sono sicure che sa procacciarsi il cibo.
L’età media del matrimonio é fra i 16 e i 18 anni. Per il resto della vita, gli uomini fanno lavori di lana (solo loro) o si dedicano all’agricoltura e le donne tessono e filano usando un osso di zampa destra di alpaca che si tramanda di generazione in generazione.

Ascoltiamo curiosi. Loro conoscono la vita fuori dall’isola. Si recano spesso a Puno a comprare e vendere. Sull’isola hanno l’elettricità e i pannelli solari. Hanno la televisione.

Eleggono il capo dell’isola in sole due ore. Ogni anno. Votano per alzata di mano. Voto palese, ma uomini e donne votano in due luoghi diversi, così i mariti non influenzano le scelte delle mogli.

Dopo il pranzo Pachamama (una specie di forno scavato per terra, dove hanno messo a cuocere patate, patate dolci, trota e pollo) abbiamo proseguito la navigazione fino alle Isole Uros.

Uros vuol dire timido. Gli abitanti di queste isole flottanti abitano qui a seguito della persecuzione subita dagli Inca. Le isole poggiano sulle radici di una speciale canna che cresce sul lago (totora) e ogni settimana vengono aggiunte canne in superficie, perché quelle sotto man mano marciscono.
Sull’isola ci sono tre capanne. In totale una decina di persone. Un capo villaggio che avrà si e no vent’anni.
Vivono qui insieme a un gatto nero. Mangiano pesce, canna totora e uccelli. I tre bambini piccoli che vivono sull’isola guardano curiosi la macchina fotografica, vogliono vedersi sullo schermo, si incantano con lo zoom.
É una vita, questa sulle isole Uros, molto dura. L’umidità provoca artriti da giovanissimi, la speranza di vita é 55-60 anni.
Una donna che sembra millenaria sta in un angolo e accudisce dei pulcini.
Ci allontaniamo dall’isola mentre gli abitanti, in abiti di festa, salutano dai bordi della loro piccola isola, aspettando un’altra barca che faccia loro visita.

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Direzione Puno

Il piano d’attacco Peterlini per affrontare l’ascesa a 5000 mt prevedeva:
– 2,5 litri di mate di coca;
– 3 litri di acqua;
– 0,5 litri di succo di durazno;
– 6 pagnotte di pane (normale, latte, cereali);
– 2 joghurt (fragola e durazno);
– 1 banana;
– 4 arance;
– 2 confezioni di caramelle assortite alla coca.

Partiamo con calma intorno alle dieci. Ci aspettano circa sei ore di strada per fare i 300 km fra Arequipa e Puno. Trecento chilometri attraverso la Reserva Nacional Salinas – Aguadas Blancas, attraverso lama, alpaca e guanachi (molto timidi i guanachi). La strada si inerpica fino ad un altopiano. Non sembra di essere a 4500 mt, la vegetazione é piuttosto verde, ci sono villaggi e tutt’intorno le montagne sono molto più alte ancora.
Noi siamo abituati che oltre i 4000 mt stanno giusto gli stambecchi e le montagne che vedi sono tutte più in basso. Muschi e licheni, per intenderci. Qui c’è il pedaggio autostradale, ci sono i ristoranti, gli autobus che arrancano in salita.
Arrivati al passo la strada inizia a scendere verso Juliaca, la città commerciale più importante della regione. Ancora 30 km e siamo a Puno.
Quando arriviamo sono le quattro di pomeriggio.
Andiamo a vedere la cattedrale barocca della Plaza des Armas, enorme in cima alla piazza. Curiosiamo in un mercato di artigianato e tiriamo tardi per andare a cena.
Quando usciamo dal ristorante tutta la città é senza luce.
Sopra di noi la croce del sud.

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